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«I tossicodipendenti sono fratelli sfortunati: discriminare questi poveri pazienti, usando le risorse dei contribuenti solo per ridurre il loro impatto sulla borghesia locale, senza nessun investimento serio nel trattamento della loro malattia (…) non mi pare una soluzione adatta a Torino – una città dal cuore d’oro». A leggere queste poche righe, senza sapere chi ne è l’autore, si potrebbe pensare ad una denuncia contro il proibizionismo globale, in virtù del quale milioni di consumatori sono incarcerati ogni anno; e in particolare contro la Fini Giovanardi, che ha spalancato le porte delle prigioni a molti più “fratelli sfortunati” di prima. O anche ad una protesta contro le politiche locali di “tolleranza zero”, cui anche la palpitante Torino non disdegna il suo contributo: quelle che identificano la “lotta al degrado” con la caccia a un numero crescente di “sfortunati e sfortunate”, dai poveri che lavano i vetri delle macchine e insozzano con le loro indecorose baracche gli argini dei fiumi, agli zingari accattoni, passando per i classici drogati.
Invece no. Per Antonio Costa, direttore dell’Ufficio sulla droga e il crimine dell’Onu e autore della lettera a Chiamparino da cui è tratto il fatidico passo, la “discriminazione” non starebbe in un regime che criminalizza alcune sostanze psicoattive (e i suoi consumatori) e lascia che il mercato ne promuova altre col sorriso irresistibile di George Clooney; bensì nell’eventuale apertura di una “stanza del consumo”, «creando – come si premura di sottolineare Costa – un’isola di legalità per l’uso di droghe illegali».
Con questa frasetta, il Buon Antonio getta la maschera. È la difesa dello statuto di illegalità delle droghe che davvero lo assilla, più che la sorte dei “fratelli sfortunati”. Ma è sempre meglio parlare in loro nome, non fosse che per rinfoltire le schiere dei cuori d’oro. La melensaggine induce la nausea, ma gli argomenti vanno sempre presi sul serio. Scrive ancora Costa: «Questo servizio (le stanze del consumo, ndr) non protegge la salute dei tossicodipendenti, dato che la droga (comprata sul mercato illegale) è tagliata spesso con anfetamine (causa di infarto), stricnina (un veleno), o altro materiale tossico. Inoltre, l’assenza del medico espone i pazienti a rischi non dissimili dall’assunzione di droga senza assistenza (…)». Detta così, sembra che la minaccia alla salute provenga dalle “stanze” invece che dal mercato clandestino, confondendo ad arte la causa con il rimedio. In più, non è assolutamente vero che i pazienti che frequentano le “stanze” siano esposti agli stessi rischi di quando consumano da soli in strada o nei cessi delle stazioni ferroviarie: lo studio del 2004 dell’Osservatorio europeo di Lisbona su 72 “stanze” diffuse in tutto il mondo attesta la loro utilità nel ridurre le overdosi infauste.
Certo, le “stanze” riducono, non eliminano, i rischi dell’illegalità delle sostanze. È una buona ragione per non farle? Com’è possibile che la proclamata volontà di difendere ancora più incisivamente i “fratelli sfortunati” conduca a non tutelarli affatto? Si dice che anche una vita salvata abbia il suo valore. Quella dei tossici forse no?
Dai nemici mi guardo io, dal Buon Antonio mi guardi Iddio!