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“Sono positivo da nove anni e da tre non uso più eroina, ma mi faccio di coca. Prendo 30 milligrammi di metadone da due anni, tutti i giorni. Personalmente mi sento bene, ma se prendo farmaci contro l’AIDS avranno effetto?”.

A queste domande – che i consumatori di sostanze psicoattive legittimamente si pongono – vengono offerte risposte sommarie che si risolvono, il più delle volte, in una sistematica e indiscriminata esclusione delle persone tossicodipendenti dalle terapie ritenute più efficaci contro la progressione dell’infezione da HIV e dalla quasi totalità dei protocolli sperimentali o di uso compassionevole.

Ma quali certezze ha oggi un medico per orientare una persona che si dichiari consumatore di una qualsiasi sostanza psicoattiva, rispetto ai rischi che un’interazione tra farmaco e sostanza potrebbe effettivamente comportare?

I dati sono scarsi, ma l’orientamento generale è che chi consuma abitualmente sostanze illecite non viene considerato in grado di rispettare gli orari di assunzione per la terapia, di sottoporsi ai controlli richiesti, di rispettare le prescrizioni alimentari. Che non sia – usando una brutta espressione di origine anglosassone che significa più o meno “ubbidiente” – “compliant”.

Ciò in assenza di dati scientifici sull’interazione tra le cosiddette droghe “da strada” e i farmaci contro la progressione del virus HIV. Esistono pochi dati in merito. La “Merck” ha finanziato uno studio sull’interazione tra i principali inibitori della proteasi e il metadone, che ha dimostrato l’assoluta compatibilità tra il trattamento sostitutivo e l’assunzione delle terapie combinate a tre o più farmaci. Dato confermato da un analogo studio della multinazionale “Abbott”, che ha definito finalmente infondata la teoria secondo la quale i dosaggi metadonici andassero ridotti durante il trattamento con gli inibitori della proteasi, contrariamente a quanto ritenuto e comunicato in precedenza.

Alcune associazioni hanno segnalato un’interazione significativa tra MDMA (l’ecstasy) e gli inibitori della proteasi (in particolar modo tra MDMA e Ritonavir) raccogliendo informazioni dai consumatori stessi.

Ma la realtà è che a ogni passo avanti della ricerca scientifica la diseguaglianza tra i “garantiti” e chi non riesce – o semplicemente non vuole – regolarizzare il proprio stile di vita secondo le indicazioni dell’establishment diventa sempre più visibile e brutale.

Costose e impegnative, le famose “tri-terapie” sono socialmente selettive. Per essere efficaci esigono un’informazione molto precisa, una frequentazione regolare dei servizi ospedalieri e l’assunzione regolare dei farmaci: presumono quindi condizioni di vita stabili.

Nell’epoca delle terapie a tre, quattro (e già si parla di terapie d’attacco che prevedono l’uso contemporaneo di cinque farmaci), è la precarietà il dato che rischia di uccidere le fasce di popolazione meno garantite.

La selezione dei soggetti “adatti” alla cura rischia perciò di essere sempre più basata su criteri di carattere economico e sociale, proponendo un percorso che impone la normalizzazione degli stili di vita senza tuttavia riconoscere il legame tra stato di salute e condizioni sociali; non esistendo – allo stato attuale della ricerca – nessun tipo di evidenza scientifica che legittimi l’esclusione dei consumatori abituali di sostanze illecite dalle terapie più complesse.

Ammettere che è la precarietà – legata alle condizioni d’uso delle sostanze – a rendere difficilmente sostenibile il regime terapeutico, rimetterebbe in campo una serie di questioni che riteniamo centrali e urgenti: la questione del reddito minimo garantito o di cittadinanza slegato dalla logica del lavoro e della produzione, la questione del diritto alla casa, la questione delle politiche di riduzione del danno, che superino la logica della sperimentazione per essere inserite a pieno titolo negli strumenti necessari per garantire un effettivo diritto alla salute di tutti.

Diritti garantiti, incondizionati e immediati, al di fuori di una logica che rischia di contrapporre miseria a sfruttamento, all’interno di un panorama degradato, che vede le persone sieropositive sempre più frammentate, disperse e concentrate nella difesa del diritto individuale di ognuno, senza che questo riesca a diventare un dato collettivo, ricompositivo dell’intero movimento.

Il concetto che altrimenti rischia di passare è che la salute è un diritto di chi accetta di essere schiacciato dai ritmi della produzione e di chi è disponibile alla normalizzazione degli stili di vita, in virtù di un dato scientifico inesistente e non sulla base di una scelta che altri hanno fatto e che attiene le politiche sociali e le strategie di controllo sulla vita degli individui.

La domanda non è dunque quali siano le interazioni tra le sostanze illecite e i farmaci antiretrovirali, ma come garantire a tutti condizioni di vita stabili, senza che questo significhi necessariamente adeguare il proprio stile di vita a un modello funzionale alla produzione e al controllo sociale.

Come garantire l’accesso alle cure per le persone irregolari, gli immigrati, i nuovi poveri. Solamente allora – una volta chiarito l’ambito del discorso – sarà possibile acquisire informazioni sulle interazioni tra le varie sostanze, come dato di garanzia per tutti e non come dato di esclusione e di selezione sociale.

* Operatore LILA Milano – ECAB/EATG, ** Operatore LILA Milano