Tempo di lettura: 6 minuti

In occasione dell’insediamento della Consulta degli operatori, a un anno dalla II Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, il ministro di Grazia e Giustizia ha fatto riferimento alle proposte elaborate dalla “Commissione di studio sulle problematiche riguardanti il trattamento penale, processuale e penitenziario dei tossicodipendenti, degli alcoldipendenti e delle persone affette da HIV”, ma non si registra ancora nessun atto legislativo del governo. Nel frattempo, però, su iniziativa parlamentare, la Commissione giustizia del Senato ha approvato un emendamento al testo di legge sulla depenalizzazione dei reati minori che depenalizza il consumo di gruppo e la coltivazione per uso personale dei derivati della cannabis. Inoltre, il Parlamento ha varato la cosiddetta legge Simeone-Saraceni, che interviene sull’esecuzione delle pene detentive e sulle misure alternative al carcere.
Su questo stato di cose abbiamo chiesto un parere a Franco Maisto, Sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, che ha partecipato ai lavori della Commissione ministeriale.
Vorrei cominciare dalla constatazione di un dato di fatto, e cioè che, nonostante l’esito referendario del 1993 e le misure di decarcerizzazione già in vigore, in Italia un terzo dei detenuti è tossicodipendente. La II Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze aveva indicato la strada della depenalizzazione del consumo. Come credi che bisognerebbe intervenire?
È un dato di realtà che una grossa fetta della popolazione penitenziaria sia tossicodipendente; bisogna anche dire che c’è un’altra piccola fetta, quella dei consumatori di sostanze stupefacenti, e ciò rende ancor più grave la questione. Bisognerebbe intervenire nei termini indicati dalla II Conferenza nazionale. Probabilmente un primo effetto positivo, in termini di decarcerizzazione, si avrà con le misure contenute nella legge Simeone-Saraceni. Ma per far fronte al fenomeno bisognerebbe avere una strategia di ampio respiro.
Una Commissione del ministero di Grazia e Giustizia, a partire dalla Conferenza di Napoli, ha studiato le possibili risposte a questo problema. Recentemente, il ministro Flick ha fornito una prima indicazione sull’esito di questo lavoro. Mi sembra che si marci soprattutto sulla strada della decarcerizzazione, evitando di mutare l’impianto complessivo della legge sugli stupefacenti che, nonostante il referendum del 1993, è ancora penalizzante e repressivo.
Sono necessarie alcune precisazioni. In realtà la Conferenza non ha mai suggerito la formazione di una commissione ministeriale per la riforma della legge sugli stupefacenti. C’è stato un autonomo atto del Dicastero della giustizia – il decreto ministeriale del 1° luglio 1997 – di nomina della Commissione, presieduta del Consigliere di Cassazione Giuseppe La Greca. D’altro canto, va detto che gli atti della Conferenza di Napoli, per quel che riguarda alcuni aspetti del problema, già recano proposte di articolati di modifica della legge sugli stupefacenti.
La Commissione (nella quale io sono stato inserito successivamente) ha fatto un lavoro di approfondito livello scientifico. A mio parere, però, ci sono due problemi non dichiarati che hanno necessità di trovare una soluzione. Il primo riguarda la differenza tra una visione laica e una visione moralistica del fenomeno, che diventa evidente soprattutto laddove le misure vanno a implementare una giustizia correzionale, tutto sommato paternalistica. Il secondo è la distinzione tra chi, pur criticando le convenzioni internazionali, è consapevole di non poter agire come se non esistessero, e chi invece, si fa schermo delle limitazioni derivanti dalle stesse per avallare l’immobilismo.
Dalle linee indicate dal ministro Flick, sembrerebbe che il lavoro svolto dalla Commissione La Greca rischi di avallare un uso della terapia come sanzione alternativa alla detenzione, ma pur sempre dentro un approccio coattivo. In generale, in questa logica di decarcerizzazione, il servizio può diventare strumento di custodia più che di cura.
Credo che tu intenda riferirti a una delle conclusioni della Commissione: la rivisitazione della sospensione condizionale della pena. Si dovrebbe prevedere un istituto di nuovo conio, conosciuto nelle esperienze straniere, che recepisce una sperimentazione avviata da qualche anno alla Pretura penale di Milano – alla quale non mi pento di aver contribuito – che consiste nella presenza, all’interno del Palazzo di Giustizia, di un SERT che indica al giudice le misure più idonee per evitare al tossicodipendente la custodia cautelare in carcere. È una sperimentazione fatta a “leggi ferme”. La scelta della Commissione è, come dicevi, di prevedere normativamente quello che si è sperimentato a Milano, consistente nella sospensione condizionale congiunta alla messa alla prova. La novità è nel fatto che l’imputato, per qualsiasi reato, anche se non relativo alla legge sugli stupefacenti – purché ci sia la possibilità di patteggiare la pena nei limiti dell’articolo 444 del codice di procedura penale – patteggia la pena e insieme a questa anche la sua sospensione condizionale. Il tossicodipendente patteggia anche la messa alla prova, cioè si dichiara disponibile a seguire un programma terapeutico e quindi il giudice, nel momento in cui emette la sentenza con la quale applica la pena e la sospende condizionalmente, mette anche alla prova l’imputato. Il meccanismo che attualmente è previsto in sede di esecuzione viene anticipato alla fase della cognizione. Il patteggiamento non potrebbe essere ripetuto più di due volte. Il tossicodipendente messo alla prova viene affidato al Centro di Servizio Sociale del ministero di Grazia e Giustizia. Il punto dolente è proprio il patteggiamento sulla messa alla prova, che significa un patteggiamento sulla terapia. Si cerca di far quadrare il cerchio, di far coincidere il tempo della giustizia con il tempo terapeutico, ma è universalmente riconosciuto che non questi coincideranno mai. È un nodo teorico che riguarda il rapporto perverso che si instaura tra giustizia e salute, tra giudici e operatori, tra statuti di saperi molto diversi, tra poteri molto diversi. Non nego che, quando cerca di esprimere il volto umano della giustizia penale, questo sistema esercita anche su di me un certo fascino. Ma non dobbiamo nasconderci che una visione terapeutica e paternalistica della giustizia rende sempre più ibride sia la pena che la terapia. Del resto, chi in questi anni ha cercato di riarticolare il rapporto tra pena e terapia lo ha fatto perché perseguiva, nonostante i limiti imposti dalla legge in vigore, l’obiettivo di una crescita responsabile e autonoma del tossicodipendente, non perché condivideva una visione cos” perversa del rapporto fra la pena e la terapia.
Se assumiamo il punto di vista del consumatore, questo rapporto perverso diventa l’alternativa tra l’essere identificato e etichettato come delinquente o come malato.
Infatti, la legge continua a non fare la scelta. Una visione laica della giustizia dovrebbe porre il problema dell’incidenza del sistema sanzionatorio della legge sugli stupefacenti nell’ambito del più ampio sistema sanzionatorio. Le pene previste dal DPR 309/90 sono così alte che certe volte si fa fatica a capire se per il nostro ordinamento sia più grave l’omicidio volontario, oppure lo spaccio di stupefacenti. La graduazione delle sanzioni in relazione alla gravità dei beni che vengono aggrediti è un problema etico. Per questo si doveva lavorare secondo le indicazioni della Conferenza di Napoli, che, riconoscendo il notevole incremento delle pene operato dal DPR 309/90 – e prima ancora dalla legge 162 – auspicava il ritorno alla misura delle pene della normativa precedente, tutt’altro che bassa.
Da Napoli veniva anche l’indicazione della compiuta depenalizzazione del consumo per uso personale…
L’indicazione che veniva era quella poi accolta dalla Corte di Cassazione, anche in relazione al consumo di gruppo, e trova una sua concretizzazione negli orientamenti dei lavori della Commissione. Resta il problema del sistema sanzionatorio-amministrativo, previsto per le detenzioni per uso personale.
Infatti, anche l’importante approvazione da parte della Commissione giustizia del Senato di un emendamento che inserisce nel progetto di legge sulla depenalizzazione dei reati minori il consumo di gruppo e la coltivazione per uso personale dei derivati della cannabis non cancella le sanzioni amministrative. Non siamo ancora a una riscrittura della norma incriminatrice che distingua nettamente le condotte connesse al consumo da quelle finalizzate allo spaccio.
La Conferenza di Napoli ha indicato diversi interventi. Per quel che riguarda le droghe leggere, il principio generale verso cui si è orientata è la depenalizzazione, pur conservando il reato associativo (l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droghe leggere) e l’ipotesi prevista dall’articolo 80 del DPR 309, cioè l’aggravante per l’ingente quantità. Gli orientamenti emersi in sede di Commissione vanno in tutt’altro senso, prevedendo un diverso trattamento sanzionatorio per droghe leggere e droghe pesanti, ma sempre nell’ambito del penale.
Un secondo intervento auspicato dalla Conferenza riguardava le altre droghe, per le quali si negava la rilevanza penale della detenzione per uso personale. E su questo concorda anche la Commissione La Greca. Solo che, per quanto concerne l’ipotesi lieve, cioè il quinto comma dell’articolo 73 del DPR 309, a Napoli si offrivano due alternative: o la piena depenalizzazione del fatto di lieve entità, oppure l’ipotesi di irrilevanza penale, così come avviene nel processo penale minorile. In tal caso, in presenza di un’esigenza di carattere educativo da privilegiare e di un fatto modesto, si proscioglie l’imputato per irrilevanza di quest’ultimo. Questa soluzione non è stata accolta dalla Commissione.
Mi pare di capire che gran parte delle indicazioni suggerite dalla II Conferenza rischiano di rimanere lettera morta.
Voglio esprimere una preoccupazione. Proviamo a mettere insieme le misure previste dalla legge in vigore, da quella appena approvata e le indicazioni della Commissione. Nella fase della cognizione prevediamo una sospensione condizionale con una messa alla prova, quindi una sospensione dell’esecuzione della pena in casi particolari (attualmente prevista dall’articolo 90 del DPR), che ha un limite di quattro anni, a cui si aggiungerebbe la sospensione in altri casi particolari (un articolo 90bis) il cui limite di pena dovrebbe essere superiore a sei anni; infine avremmo un riformulazione dell’articolo 94 del DPR 309 (affidamento in prova in casi particolari), che ha esigenze di armonizzazione con la Simeone-Saraceni. Sono preoccupato dalla farraginosità di questo sistema. Mi domando se, in futuro, i tossicodipendenti saranno costretti a rivolgersi a un ufficio legale delle dimensioni di quello che può permettersi la Fiat! Invece, un po’ più di coraggio e una maggiore dose di eticità nell’armonizzazione di questo sistema sanzionatorio – ormai disintegrato – avrebbero dovuto far pensare a lavorare molto di più sulla rivisitazione delle ipotesi di reato e molto di meno sulla implementazione del rapporto pena/terapia.