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Dopo tre anni di polemiche sul terreno minato dei test antidroga, oggi siamo di fronte, per la prima volta, ad un gruppo di dati su esami effettivamente realizzati: sono gli accertamenti sui lavoratori “a rischio” (conduttori di automezzi, essenzialmente, più addetti ad esplosivi e impianti nucleari) per vedere se consumano sostanze psicoattive illegali e, nel caso, rimuoverli dalla mansione. I dati sono contenuti nella “Relazione al Parlamento” (alle pagine 281-288) predisposta dal Dipartimento governativo antidroga del quale è responsabile Carlo Giovanardi.
Purtroppo, non solo i commenti che accompagnano i dati, ma anche l’entità e la natura dei dati stessi sembrano confermare i rilievi e le critiche che le tre Confederazioni, e la Cgil in particolare, avevano espresso su questo tema già negli anni scorsi (vedi in particolare, sul Manifesto, le dichiarazioni della segretaria confederale Paola Agnello Modica nell’articolo di Eleonora Martini del 31.10. 2007 e l’analisi sviluppata dal sottoscritto nell’inserto Fuoriluogo del 26.10. 2008). Sull’1,2% dei lavoratori testati (54.138 in tutto) e risultati positivi a due tipi di esami (il primo e quello di conferma) – in tutto 649 persone – il 64% (415 soggetti) risulta essere consumatore di derivati della cannabis: paradossalmente, dunque, la categoria più coinvolta è composta da lavoratori che in gran parte non sono tossicodipendenti: la vera e propria dipendenza da cannabis è, infatti, un evento relativamente poco frequente, ma i test registrano il puro e semplice consumo, anche di una sola volta: ed è di questo tipo, presumibilmente, il consumo di molti dei soggetti interessati, poiché la cannabis, unica tra le sostanze psicoattive (a meno che non si ricorra all’analisi dei capelli) lascia tracce riscontrabili nell’organismo anche per parecchie settimane dopo il momento dell’assunzione.
Naturalmente il sindacato non sottovaluta la crescente diffusione di sostanze legali e illegali nei luoghi di lavoro: quest’ultima richiederebbe, infatti, la crescita anche dell’informazione e della prevenzione per tutti, nonché la creazione di nuovi strumenti per l’assistenza a quelli che abusano. Tuttavia, non si può non rilevare che questo accanimento su lavoratori che, se non tutti, certo in notevole misura (per quanto detto sulle tracce che restano a lungo) si sono “fatti una canna”  – come si beve una birra o del vino – ad una sufficiente distanza dal momento e dal luogo della guida, è tutt’altro che casuale. Infatti, per ben tre volte, nelle succinte osservazioni che accompagnano i dati si ripete che l’allontanamento dalla mansione deve essere deciso anche per il semplice uso “sporadico e saltuario” di qualsiasi sostanza psicoattiva illegale: mirando così, con preoccupante coerenza, non tanto e non solo ad individuare una inidoneità rispetto alla mansione specifica, quanto piuttosto a sanzionare un particolare stile di vita. L’essere allontanati dalla mansione, infatti, pur non significando il licenziamento, può comportare un danno sul piano retributivo, l’applicazione di uno stigma ingiustificato e, nelle piccole aziende di trasporto, il rischio vero e proprio di perdere il posto di lavoro.
La preoccupazione aumenta quando si nota che il 6% sul totale delle persone risultate positive rispetto alle sostanze in genere (39 soggetti) sono consumatori di metadone. Il metadone è un derivato dell’oppio, ma è, in primo luogo, un medicinale e viene regolarmente somministrato da tutti i servizi pubblici per le dipendenze, in tutta Italia, a decine di migliaia di normalissimi lavoratori: tra questi, evidentemente, ce ne sono alcuni che guidano per mestiere automezzi pubblici e privati così come, tra i responsabili degli stessi servizi pubblici, c’è chi dice (su serie basi cliniche e terapeutiche): “I miei pazienti in cura col metadone che guidano automezzi sono perfettamente in grado di farlo”. È un punto delicato, sul quale fra gli operatori c’è un dibattito aperto: un dibattito che su questo – come su altri temi – il Dipartimento guidato da Carlo Giovanardi sembra voler chiudere in fretta, aprendo invece varchi pericolosissimi sul terreno dell’attacco alla privacy e dell’inutile stigmatizzazione.