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Una delle questioni più controverse, oggetto del dibattito attuale, riguarda la legittimità della relazione tra le ricerche neuro scientifiche, la realtà della clinica delle dipendenze e l’orientamento stesso delle scelte delle politiche sulle droghe.

L’uso continuo delle spiegazioni neurobiologiche per stabilire pressoché tutte le questioni collegate ai consumi di sostanze stupefacenti sollecita una domanda sui rischi di un pensiero unico sulle droghe a cui si attribuisce il potere di dare una spiegazione ultima su qualunque aspetto a queste collegate.

Tale domanda è legittimata dal fatto che noi tutti condividiamo il riconoscimento  della complessità del fenomeno, caratterizzato dall’intreccio delle diverse componenti fisiologiche, psicologiche, sociali e culturali, esemplificata dal celebre paradigma di interpretazione dei consumi di Norman Zinberg: drug, set, setting (la droga, la psicologia del consumatore, il contesto di consumo).

Tale complessità, esclude, almeno per ora, affermazioni semplificate quali quelle secondo cui le neuroscienze avrebbero dimostrato la compromissione delle funzioni cognitive superiori nei consumatori (tesi per la verità non nuova, giornalisticamente nota come “droga bruciacervello”).

Certo una spiegazione ultima presenta l’indubbio vantaggio di rassicurare operatori e cittadini proponendo certezze riduttive e semplificate ma sostanzialmente fa un torto all’esperienza clinica nei servizi territoriali in quanto nega di fatto a questi la capacità autonoma di produrre conoscenza; crea, inoltre, una gerarchia tra i diversi modelli di conoscenza stabilendo, arbitrariamente, che ve ne sia una più attendibile delle altre; tende infine a determinare un conflitto tra diversi saperi.

Di fatto, un malinteso del genere ostacola una discussione a più voci, attribuisce alla comunità neuro scientifica una mission che, a quanto mi risulta, non è nemmeno ricercata dai suoi rappresentanti.

La provvisorietà dei modelli attestata dagli stessi neuroscienziati, testimoniata anche dalla continua evoluzione delle teorie sull’addiction, la varietà di ricerche non comparabili metodologicamente tra loro, ci dicono che le neuroscienze ci offrono un panorama molto interessante e affascinante di conoscenze ma che queste hanno, per ora, un’importanza molto limitata per le pratiche cliniche dei servizi, per il lavoro di strada, per il lavoro nei contesti del divertimento, per le diagnosi di dipendenza, per la valutazione dei rischi etc.

Sono convinto, comunque, che quando una ricerca neurobiologica rileva che una qualche modificazione indotta nel cervello dall’effetto di una sostanza si possa configurare come un danno, questa acquisizione deve interessarci e indurci a valutare, anche se non meccanicisticamente, le implicazioni sul piano clinico e delle azioni di prevenzione selettiva. Ma allo stesso modo sono convinto che se una ricerca ben documentata dice che una strategia di riduzione del danno ha evitato un certo numero di overdose, o ha ridotto la microcriminalità e la carcerizzazione, ha limitato fortemente le malattie infettive, ha migliorato alcuni processi di socializzazione, deve farci seriamente prendere in considerazione queste prospettive e valutarne il possibile impatto nelle politiche dei servizi e i possibili vantaggi per gli utenti e la popolazione.

Per me, una tale impostazione pragmatica può contribuire a promuovere una prospettiva laica e pluralistica delle conoscenze, consente di rispettare punti di vista anche distanti e contrapposti, permette un allargamento delle competenze e forse riduce alcune differenze, rilevando più punti in comune di quanto si possa pensare.

Tornando al dibattito aperto in questa rubrica sui test per i lavoratori, e in specifico per i lavoratori dei trasporti, è importante chiarire che però la norma prevede la sanzione solo ed esclusivamente nel caso in cui il SerT accerti uno stato di tossicodipendenza.

Il discorso a questo punto si complica e richiede altri spazi e altri tempi. Sempre nel riconoscimento della ricchezza delle diversità, quale prospettiva culturale utile a costruire un “paradigma ospitale e cooperativo” sul fenomeno dei consumi di droghe.