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Dieci mesi fa il Presidente Biden, annunciava la grazia ai detenuti per possesso di cannabis, e dava il via al processo amministrativo per rivedere la classificazione della cannabis a livello federale. Mercoledì scorso si è diffusa la notizia che il Dipartimento della Salute USA (HHS), ha terminato la revisione scientifica ed ha inviato alla DEA il proprio parere. Nella lettera, resa pubblica da Bloomberg, l’HHS ha raccomandato il passaggio della cannabis dalla Tabella I della legge federale sugli stupefacenti, che raccoglie le sostanze ad alto rischio d’abuso e senza possibilità d’uso, anche terapeutico, alla Tabella III, sostanze con un potenziale di abuso inferiore e che possono portare a una dipendenza fisica moderata o bassa o a un’elevata dipendenza psicologica. La raccomandazione dell’HHS non è vincolante, ma addirittura il National Institute on Drug Abuse (NIDA) di Nora Volkow (che fino a pochi anni fa andava a braccetto con Serpelloni e Giovanardi) ha approvato il testo dell’HHS. Dal punto di vista pratico la riclassificazione non avrebbe alcun effetto pratico sulle regolamentazioni dei 23 stati che hanno legalizzato la cannabis. Questa permetterebbe giusto di rendere più facile la ricerca e di avere una tassazione federale più vantaggiosa per le imprese.

Sono quindi in tanti a vedere il bicchiere mezzo vuoto: la speranza che il processo di revisione portasse alla declassificazione completa è stata delusa. Questa avrebbe spianato la strada alla regolamentazione legale a livello federale. Ma, vista da fuori i confini statunitensi, si tratta comunque di uno passaggio storico per gli USA. Significherebbe non solo che la massima agenzia sanitaria federale non classifica più la cannabis come una sostanza ad alto potenziale di abuso e senza alcun valore terapeutico, ma anche discostarsi formalmente dalla classificazione delle convenzioni internazionali. Questo già succede in molti paesi, Italia compresa: ma ripensando al ruolo guida degli Stati Uniti nella stesura di quei testi, diventa evidente l’ormai inarrestabile processo di rottura del monolite proibizionista.

Se dappertutto si fanno passi in avanti, l’approccio ideologico del Governo Meloni sulla materia continua a far fare passi indietro all’Italia. Il 7 agosto scorso Ministro della Salute Schillaci ha revocato la sospensione del provvedimento del suo predecessore Roberto Speranza che inseriva nelle tabelle dei medicinali del Testo Unico sulle droghe le “composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo (CBD, ndr) ottenuto da estratti di Cannabis“. La sua emanazione allora sollevò proteste e richieste di ritiro. Inopinatamente il Ministro lo sospese solamente, lavandosene le mani e lasciando così la pallottola in canna al suo successore. Il quale, revocando la sospensione, ha lasciato malignamente intatta paternità e contenuto.

Allora si diceva che il motivo del provvedimento fosse permettere l’introduzione dell’Epidiolex, un farmaco a base di CBD per il trattamento delle epilessie farmaco resistenti, anche infantili, prodotto dall’inglese GW Pharma. Questo però non contiene THC neanche in tracce e dopo l’approvazione dell’AIFA non ha avuto per fortuna alcun bisogno dell’inserimento in tabella per essere importato, prescritto e somministrato quotidianamente ai pazienti italiani.

Dal punto di vista medico-scientifico, non c’è alcun senso logico nell’inserire una medicina che non contiene sostanze psicoattive all’interno delle tabelle previste dalla legge sugli stupefacenti. Da quello giuridico, l’inserimento dei preparati a base di CBD ad uso orale nella Sezione B della tabella dei medicinali ha ben poche basi: dalle convenzioni e dalle legislazioni conseguenti, è infatti esplicitamente esclusa la canapa ad uso industriale, dalla quale vengono estratti questi preparati. Il CBD non è sostanza psicoattiva e non è inserita nelle tabelle delle convenzioni internazionali.

Schillaci mistifica il voto contrario dell’Unione Europea, nel dicembre 2020 all’ONU di Vienna, alla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che voleva escludere le preparazioni a base di CBD come meno dello 0,2% di THC dal sistema di controllo internazionale. Basta leggerne le motivazioni per comprendere che furono più formali che sostanziali, e legate al fatto che quel limite semmai fosse troppo basso – inferiore allo 0,3% oggi ammesso dalla normativa comunitaria – e inserito con una forma innovativa che poteva suscitare problemi interpretativi e applicativi. Fra le altre cose, si legge testualmente che “l’UE ha ritenuto di abbassare l’attuale livello di controllo per tali preparati“. Sulla stessa linea la giurisprudenza europea, che proprio in quelle settimane sentenziava che “uno Stato membro non può vietare la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in un altro Stato membro“.

Il Governo Meloni ignora due anni di lavoro di revisione scientifica della commissione droghe dell’OMS, che ha portato a concludere che il CBD non è sostanza stupefacente. In compenso si fa forte del parere della “commissione cannabis” dell’ordine dei medici della Provincia di Roma. Ritenuto talmente valido dal punto di vista scientifico da essere rivendicato da Gandolfini e meritare la pubblicazione sul sito istituzionale del Dipartimento Antidroga (DPA). Sui contenuti meglio stendere un pietoso velo. Da segnalare invece come fra gli esperti di quella “commissione” ci sia anche Antonio Pignataro, il Questore di Macerata noto per le sue crociate contro la cannabis light, promosso casualmente da Piantedosi proprio al DPA.

Il Governo, insomma, se la canta e se la suona. Le vere ragioni sono da cercare altrove. Secondo il Pharmaceutical Cannabis Report, appena pubblicato dall’agenzia di consulenza Prohibition Partners, le vendite globali dell’industria farmaceutica della cannabis raggiungono circa 1,11 miliardi di dollari nel 2023, e sono stimate in crescita fino a 1,37 mld di dollari entro il 2027. Epidiolex è l’attore dominante del mercato, con una quota stimata di circa il 76% per il 2023. C’è quindi un evidente interesse economico di Big Pharma a controllare un mercato promettente.

Ma c’è anche una volontà politica volta a escludere la filiera locale che, pur nell’incertezza normativa, ha rappresentato una delle poche novità del panorama agricolo e imprenditoriale “nazionale”. Un mercato che in questi anni si è sviluppato attorno alle proprietà, anche terapeutiche, riconosciute al cannabidiolo. Se appare giusto prevedere una regolamentazione più chiara rispetto alle preparazioni a base di CBD, in particolare per garantire i consumatori sulla qualità e provenienza, questa – come si è cercato di spiegare – non ha alcun motivo di coinvolgere il Testo Unico sugli stupefacenti. Basterebbe, come previsto già per altri “integratori”, definire una soglia di concentrazione al di sopra della quale il medicinale debba essere prescritto da un medico. Garantendo così sia la sicurezza e la reperibilità del prodotto per chi lo usa, che la crescita di un settore che sinora ha visto giovani imprenditori, consumatori e pazienti essere vittime dell’ottusa e ideologica guerra alla canapa.

Una guerra che vede molti interessati, visto che il prossimo intervento – già annunciato in alcuni emendamenti governativi poi ritirati – potrebbe essere la sottomissione della cannabis light, e quindi delle infiorescenze a basso contenuto di THC, al regime dei Monopoli di Stato. Di fatto una sua devoluzione a Big Tobacco prima ancora che ai tabaccai.

[Articolo di Leonardo Fiorentini, segretario di Forum Droghe, pubblicato su l’Unità del 5 settembre 2023.]