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cartagena.jpgDopo le goliardiche prodezze degli agenti di Obama, mandati in avanscoperta a preparare il summit panamericano di Cartagena e beccati a fare  turismo sessuale, detto vertice del 14-15 aprile è finito male, anzi malissimo: lo hanno evidenziato diverse parti autorevoli, dal Transnational Institute (TNI) al New York Times.

Alcuni dei circa 30 capi di stato hanno avanzato a Cartagena la richiesta di discutere come ridurre i danni della trentennale guerra alla droga, per la quale i paesi latinoamericani pagano un prezzo sempre più elevato – gli innumerevoli morti ammazzati, gli eserciti di miserabili, soprattutto ma non soltanto coltivatori, ridotti in schiavitù dai narcotrafficanti; eccetera. Tale presa di posizione appare assai  importante in quanto proviene da vertici politici in carica – cioè che rispondono direttamente del rispetto delle convenzioni internazionali sottoscritte dai loro paesi, e direttamente sfidano gli USA che condizionano le politiche dell’UNODC e che seguitano a considerare i suddetti paesi come il loro cortile di casa; e inoltre sposa le proposte di autorevoli organismi internazionali indipendenti: come il già citato TNI col suo programma Drugs and Democracy e come la Global Commission on Drug Policy, la quale comprende diversi ex capi di stato e altri autorevoli personaggi (in particolare l’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan).

Assente a Cartagena per la sua grave malattia il venezuelano Chavez, il più “estremista” è apparso il presidente guatemalteco Otto Pérez Molina, con la richiesta  di legalizzare tutte le droghe. Più diplomatico, ma non meno chiaro e forte, il presidente colombiano Juan Manuel Santos: “Malgrado tutti gli sforzi, gli immensi sforzi, e gli alti costi, dobbiamo riconoscere che il business della droga illegale è sempre più prosperoso. Questo summit non risolverà il problema, ma può essere un punto di partenza per avviare una discussione che abbiamo rinviato per troppo tempo”. E ancora: “Abbiamo l’obbligo di verificare se stiamo facendo la cosa migliore, o se vi sono alternative più efficaci… A un estremo c’è la carcerazione di tutti i consumatori. All’estremo opposto c’è la legalizzazione. Tra i due estremi, possiamo trovare politiche più efficaci” (e qui va  ricordato il prezioso “Dopo la guerra alla droga” della Transform Drug Policy Foundation, Ediesse 2011, che esplora minuziosamente i vari possibili percorsi).

Ma Obama, raccolto qualche applauso per una spolverata di contentini a parole – stiamo investendo per ridurre la domanda di droga che viene dagli USA; stiamo tentando di frenare il flusso di armi fornite illegalmente ai criminali dai nostri fabbricanti e venditori, di controllare i movimenti di denaro nero; eccetera – ha ribadito l’ennesimo sovietico Nyet dei suoi precedessori a qualsiasi forma pur limitata di legalizzazione. (Sovietico per analogia con un curioso episodio della guerra fredda, quando un diplomatico statunitense scommise che avrebbe estorto un Sì dal famigerato Mister Nyet, cioè il rappresentante dell’URSS all’ONU Andrei Gromyko. All’ennesimo Nyet, rispettosamente chiese: “Mr. Gromyko, non abbiamo sentito bene, ha detto Nyet?” “Da, da,da…”). Obama si è spinto sino ad affermare che con la legalizzazione gli operatori della droga potrebbero “dominare certi paesi se autorizzati a operare legalmente senza alcuna restrizione, e generare altrettanta corruzione, se non più corruzione, rispetto allo status quo”. Insomma, più che i morti e le miserie di un intero continente, per non parlare dei guasti nel resto del mondo (e il nostro paese ne sa qualcosa), pesano ovvviamente i voti dei molti perbenisti nordamericani di cui Obama va disperatamente alla caccia.

Cioè come nell’elegante incipit della favola del lupo e dell’agnello di Jean de la Fontaine, La raison du plus fort est toujours la meilleure. O peggio, come nella chiusa di uno dei più crudi sonetti di Belli, par di risentire l’ordine perentorio gridato al suo cocchiere dal signore frettoloso, la cui carrozza aveva nottetempo travolto un poveraccio: “Avanti, alò, chi more more”.

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