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E’ stato approvato alla Camera il cosiddetto decreto “svuota-carceri”. Se la componente simbolica ha una qualche rilevanza in politica, una prima riflessione va fatta sul linguaggio: il decreto, originariamente partito come il provvedimento contro il sovraffollamento carcerario, è stato ribattezzato dai media (tutti) “svuota-carceri” con evidente cambiamento di prospettiva e stravolgimento di significati. Si è appannata, fino quasi a scomparire, l’immagine di provvedimento umanitario, necessario per il rientro nella legalità dello stato italiano  dopo la condanna della Corte Europea niente di meno che per “trattamento inumano e degradante” dei detenuti; per accendere i riflettori sulle celle “svuotate” dai “delinquenti in libertà”. Il deputato che getta le manette in faccia alla ministra, rivendicando la sua idea (a senso unico) della legalità, ha recitato una squallida farsa che sta all’interno di questa costruzione simbolica.
Sbaglieremmo a sottovalutare la questione. Se la dizione “svuota-carceri” ha avuto tanta risonanza, ciò significa che il “doppio binario” della legalità è idea radicata nel profondo delle pance di molti: “tolleranza zero” per il cittadino e la cittadina che infrangono la legge, ma quando a infrangere la legge è lo stato, allora è tutto un altro par di maniche: specialmente quando l’infrazione riguarda i diritti degli autori di reato (o presunti tali, per i tanti in custodia cautelare).
Gratta il barile, viene fuori il fetore discriminatorio: ci sono categorie che non meritano di avere diritti, in barba alla legge. Se poi si considera che il carcere è gonfiato da soggetti perlopiù autori di reati non violenti (immigrati clandestini, tossicodipendenti, piccoli spacciatori etc.), che in carcere proprio non dovrebbero stare, sovraffollamento o meno, il quadro si fa più chiaro: sono i diritti dei famosi “poveracci” (delle patrie galere) a pencolare. In quanto “poveracci” e in quanto frequentatori delle patrie galere, in un connubio accuratamente nascosto dall’invocazione alla “legge e ordine”. Come scriveva uno dei fondatori della psicologia di comunità, William Ryan, nel lontano 1971: evviva “l’ordine illegale”, evviva “l’amministrazione dell’ingiustizia”.
Il Parlamento, di fronte a un decreto non certamente rivoluzionario, ma che per la prima volta poneva l’urgenza di incidere sugli effetti della legge Fini-Giovanardi sulle droghe ha preferito polemizzare sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata, che si riduce alla possibilità non automatica di un’uscita dal carcere anticipata di sei mesi. Quando invece sarebbe stato opportuno modificare la norma sui fatti di lieve entità per la detenzione di sostanze stupefacenti che nel decreto continua a prevedere una pena alta, da uno a cinque anni: in barba a quanto proposto dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Glauco Giostra, membro del Consiglio Superiore della Magistratura (la pena ben più lieve da sei mesi a tre anni).
Allo stesso modo i deputati, accecati da un’orgia forcaiola, hanno perduto l’occasione di migliorare la norma che istituisce la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che vede la luce in maniera non pienamente rispondente ai criteri internazionali di indipendenza e di autonomia. Quando la propaganda prende il posto della politica, le priorità vengono decise dalla demagogia.
Oggi la Corte Costituzionale deciderà sull’incostituzionalità della legge sulla droga ideologicamente proibizionista e punitiva. Se sarà cancellata, sarà un segnale anche per la politica ignava e pavida.