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Il Dipartimento Politiche Antidroga li annovera tra le “popolazioni speciali”. Chi sono? I lavoratori con mansioni considerate a rischio e suscettibili, a norma di legge, di esser sottoposti a test antidroga. Non solo piloti, tecnici di impianti nucleari o rigassificatori, artiglieri o uomini radar ma anche autisti, mulettisti, antennisti…
Nel 2011 sono stati oltre 88.000 i lavoratori sottoposti, in tutta Italia, al test di primo livello per individuare anche un semplice uso “sporadico e saltuario” di sostanze psicoattive e dunque, con automatismo millimetrico, suscettibili di inidoneità a svolgere determinate mansioni considerate a rischio, se positivi.
Sempre dai dati del Dipartimento si apprende che i casi di positività al test sono stati lo 0,31%, per la maggior parte in relazione all’assunzione di cannabinoidi, anche se in decremento rispetto all’anno precedente. In termini assoluti si tratta di 269 casi, che si riducono a197 nel test di secondo livello. Il dato più sconvolgente: la diagnosi di dipendenza riguarda 32 persone, mentre per 265 ci si limita all’uso occasionale.  Molto si è scritto intorno a questa normativa, alla sua applicazione esemplare e “decimatoria” più che realmente preventiva, ai costi dei test, alla pericolosità di farmaci regolarmente in commercio che producono inabilitazione totale o parziale nel rapporto uomo macchina più che le sostanze illecite; poco su quanto avviene nella realtà di un numero crescente di aziende.
In teoria, secondo la legge, in caso di positività del lavoratore ai test, questi dovrebbe seguire un percorso presso il servizio pubblico territoriale competente con temporanea sospensione dall’attività classificata a rischio e reimpiego in altre mansioni non pericolose presso l’azienda stessa. Ma capita nella realtà?
C’è il caso di Maurizio impiegato alla Cabloswiss, società del gruppo Nexans di Trezzano Rosa,  positivo al test: sospeso dal servizio il 5 aprile, è stato licenziato il 16 maggio. Vicenda surreale se non fosse vera, emersa grazie al lavoro del sindacato Usb, sulla quale deciderà la magistratura del Tribunale di Milano il 22 ottobre prossimo in seguito all’impugnazione del provvedimento.
Non si tratta di un caso isolato, soprattutto in questi tempi di crisi, quanto di una prassi che normalmente si conclude con le dimissioni “volontarie” del lavoratore. Nella maggior parte dei casi, risulta un consumo occasionale di cannabinoidi, quindi la funzione punitiva (e non preventiva) della norma emerge con tutta evidenza.
Non si sta discutendo della guida di un jumbo in stato di ubriachezza, su cui esistono pochi dubbi, ma di quanto sia corretto considerare un uso saltuario come ragione di esclusione da mansioni a rischio. Ad essere sanzionato è lo stile di vita della persona, senza valutare effettivamente le sue capacità operative. La finalità preventiva soggiace all’intento moralistico ideologico (lo stesso della legge Fini-Giovanardi e dell’azione del Dipartimento Antidroga), che con la salvaguardia della salute dei lavoratori e dei terzi c’entra poco o nulla. Per non parlare dei costi a carico delle aziende e dei lavoratori che vanno mediamente dai 6 ai 70 euro per singolo caso.
Un approccio diverso, capace di effettiva tutela della salute e dei diritti, è il meno che si possa chiedere ad una sinistra che ambisce a governare il paese.