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Perché le persone iniziano a consumare droghe? Perché continuano a consumare sostanze? In che maniera si instaura una dipendenza fisica? Sono queste le tre domande cruciali a cui Ambros Uchtenhagen, docente di psichiatria sociale e direttore dell’ Istituto di Ricerca sulla Addiction dell’Università di Zurigo, uno dei maggiori esperti a livello mondiale, ha dato risposta. Lo ha fatto, all’interno della conferenza “Dal carcere alla comunità”, organizzata a Firenze dal Gruppo Incontro e da Itaca con il sostegno della Regione Toscana.

Uchtenhagen ha concentrato l’attenzione sul ruolo attuale, quasi predominante, delle neuroscienze nel dibattito scientifico, professionale e nella definizione delle scelte politiche. Eppure a tutt’oggi, gli approcci neuroscientifici hanno compiutamente risposto solo ad una delle precedenti domande, circa i meccanismi biologici dei fenomeni di tolleranza e craving. Ciò è avvenuto attraverso ricerche ormai consolidate mirate ad approfondire le conoscenze sulle funzioni cerebrali e tramite le nuove frontiere strumentali (prima fra tutti, le tecniche di neuroimaging). Ma se le neuroscienze descrivono gli aspetti fisiologici della addiction, non riescono però ad andare oltre e a spiegare i comportamenti definiti come dipendenti: in altre parole, non riescono a rispondere alle prime due domande che sono state sopra formulate. Uchtenhagen ha ricordato la sua definizione dell’addiction: “Una forma di automanipolazione anche diretta verso gli altri, al fine di affrontare i problemi della propria vita, che qualche volta si trasforma in una (reversibile) forma di dipendenza (una condizione medica) quando tutti gli altri tentativi comportamentali hanno fallito“ (Connection Conference, London June 2010). Da notare che questa definizione è diversa da quella sostenuta in ambito medico (e presente nel senso comune) di patologia indotta dalle sostanze tramite modificazioni in ambito biologico. Per di più, a parere dello studioso svizzero, la stessa dipendenza fisica è reversibile. Ciò significa che, in determinate condizioni, le alterazioni cerebrali possono essere ricondotte a condizioni precedenti superando il danno prodotto.

Peraltro, il dibattito scientifico sulle droghe e i paradigmi che spiegano il consumo di sostanze hanno subito storicamente profonde modificazioni, così come le politiche con cui si è cercato di affrontare i problemi connessi: è un pendolo che oscilla a tra l’ambito delle teorie sociali e quello di esclusiva competenza medica biologica. Ma giungerà presto un tempo in cui anche i decisori politici chiederanno conto degli (assai scarsi) risultati delle ricerche nell’area biologica e, appunto, neuroscientifica. I grandi investimenti sulle ricerche di questo tipo avevano come uno dei più rilevanti obiettivi quello di identificare, sperimentare e mettere a disposizione nuovi farmaci. Questo obiettivo è fallito. Un esempio è quello delle ricerche (straordinariamente costose) sul vaccino per evitare in forma “definitiva” il consumo della cocaina, che non hanno prodotto risultati rilevanti e soluzioni minimamente adeguate.

Né va sottovalutato il pericolo derivato da una lettura dei fenomeni dei consumi e delle dipendenze basata solo sulle neuroscienze. Una riduzione della complessità di questo genere è assolutamente inaccettabile e produce effetti drammatici anche nel campo dei trattamenti: riducendo ad ancillari e collaterali pratiche, interventi, saperi e teorie, differenti da quelle mediche.