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Ha vent’anni, la riduzione del danno in Italia, è giovane ma adulta. Tempo di progetti, di scelte, tempo – anche – di bilanci e aggiustamenti. Un lavoro necessario, critico e innovativo, a cui la scuola estiva di Forum Droghe e Cnca – Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza, dal primo settembre a Firenze offre, come ogni anno, il suo laboratorio collettivo. I tempi sono difficili: il termine stesso è stato espulso dalle politiche pubbliche, grazie alla linea del  Dipartimento antidroga del governo, che ha  piegato quella che a livello  europeo è una politica sociale e un approccio complessivo alla questione dei consumi e delle dipendenze, a un pugno (e in molti casi nemmeno quello) di interventi sanitari sotto il nome di “prevenzione delle patologie droga correlate”. Cosa c’è dietro questa questione semantica? Una volontà di  sterilizzazione della riduzione del danno come politica sociale capace di rappresentare un’alternativa all’approccio morale, penale e securitario ad oggi dominante,  capace di dimostrare che contenere rischi e danni del consumo – per i singoli e per il contesto sociale – è possibile, a certe condizioni culturali, sociali e politiche, e che a queste condizioni è possibile lavorare, metter mano su diversi piani: quello del sistema di servizi, quello delle politiche locali, quello della costruzione di un contesto sociale di minimizzazione del danno potenziale. E’ su questa prospettiva di respiro che la riduzione del danno  italiana subisce  lo scacco del suo depotenziamento, la beffa del paradosso di danni crescenti – si pensi alle carceri, per citarne uno, affollate per oltre il 30% di persone tossicodipendenti  – a fronte di alternative pragmaticamente possibili ma stroncate a livello politico e ideologico. Si pensi anche a quello che è uno dei nervi maggiormente scoperti della riduzione del danno italiana, le politiche locali delle città, ancora così centrate da un lato su un approccio securitario, per altro poco efficace, e dall’altro su una delega al settore sanitario, che lascia fuori interventi di governo basati sull’inclusione sociale, la mediazione di conflitti, servizi mirati. La lunga partita giocata, e persa,  sulle stanze del consumo – servizi attivi in Europa dagli anni ’80 – la dice lunga.

E tuttavia, alla base del “nome” negato c’è in ogni modo la “cosa”: tanto, in realtà, è stato fatto in Italia in questi vent’anni, in termini di costruzione di servizi e messa a punto di esperienze e metodologie, di produzione di pensiero, di azione e responsabilità pubblica tante volte assunta dagli stessi operatori del settore. La scommessa del laboratorio di Firenze si basa su questo: sull’analisi lucida delle derive (e delle debolezze) e sulla possibilità di nuovi approdi giocati sull’esperienza, la conoscenza, la disponibilità a fare, ancora  e sempre, “laboratorio sociale”. Non dimenticando che non siamo soli: è in atto un movimento internazionale che  include attori nuovi, oltre al movimento che da sempre si batte per una diversa politica globale sulle droghe: da alcune  sedi ONU ai leader dell’America Latina, è in corso la denuncia della catastrofe della war on drugs, una denuncia che pone, contestualmente, la necessità di una alternativa. La riduzione del danno ha la forza di un’alternativa, se non viene sterilizzata e chiusa nella nicchia di qualche tecnicismo. E’ questa consapevolezza – e questa responsabilità – che mette all’ordine del giorno la scrittura collettiva di una “agenda delle innovazioni non rinviabili”.