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La distorsione mediatica di quanto si pubblica su farmaci e droghe nelle riviste scientifiche va crescendo in modo sempre più sfacciato. Qualche tempo fa, per esempio, un ampio studio americano evidenziava il frequente fallimento delle terapie neurolettiche, che per inefficacia e/o tossicità dovevano esser sospese entro 18 mesi nel 74% dei pazienti. Ma su Repubblica (Affari&Finanza del 26.9.2005) gli stessi dati erano usati per vantare l’eccellenza terapeutica di quattro neurolettici atipici delle nuove generazioni, assai più costosi di quelli classici; e questo, in base a minime differenze delle rispettive frequenze di fallimento (sempre dal 64% in su) rispetto a quelle dei loro predecessori. E più di recente, lo stesso supplemento finanziario (26.3.2007) ha cantato lodi sperticate dei cosiddetti stent (protesi vascolari) medicati usati per le patologie coronariche: e questo, proprio appellandosi a quegli studi usciti di recente su varie riviste mediche internazionali che destano fondati sospetti sui danni provocati da tali stent in oltre metà dei pazienti, nei quali sarebbe preferibile la applicazione di stent non medicati (assai meno costosi) o in qualche caso, viceversa, il ricorso a una procedura chirurgica più impegnativa (bypass).

Quando dai farmaci si passa alle droghe, il ribaltamento va puntualmente in direzione opposta. Ne è un buon esempio la clamorosa uscita sulla cannabis del britannico The Independent (18 marzo; v. Fuoriluogo, marzo 07), che anticipando una ricerca in corso di stampa sul Lancet afferma che la cannabis è più pericolosa dell’Lsd e dell’ecstasy. Pochi giorni dopo (24 marzo) esce sul Lancet il lavoro in questione (D. Nutt et al., vol. 369, p. 1047-1053), accompagnato da un ragionevolissimo editoriale (p. 972). Si tratta di una valutazione di pericolosità, da parte di due squadre di esperti, di 20 sostanze psicoattive lecite e illecite, in base a nove parametri (tre per il danno fisico, tre per il potenziale di indurre dipendenza, tre per il danno sociale). In testa alla classifica si piazzano oppiacei e coca, seguiti in foto-finish da barbiturici e alcool. Poco più indietro inseguono le benzodiazepine, l’amfetamina e il tabacco; e poi, più in giù in una graduatoria che si chiude con il khat, la cannabis, l’Lsd e l’ecstasy, con minime differenze tra di loro. Il problema più grave, secondo gli autori, è che per motivi economici e politici è impossibile proporre una penalizzazione dell’alcool analoga a quella di eroina e cocaina, e una penalizzazione del tabacco analoga a quella delle sostanze appena meno pericolose, mentre Lsd ed ecstasy dovrebbero essere «promossi» per coabitare con la cannabis nella fascia meno pericolosa. Citiamo la conclusione dell’editoriale: «Una politica più razionale eviterebbe di usare una retorica che impedisce di pensare, come la cosiddetta guerra alle droghe. Dobbiamo invece trovare vie migliori per ridurre la domanda di sostanze psicoattive da parte dei giovani dei paesi sviluppati. E abbiamo bisogno di risposte più umane ed efficaci alle persone che diventano dipendenti da sostanze psicoattive malgrado i nostri migliori sforzi per scoraggiare il loro uso».

Tanto, distintamente, era dovuto ai pentiti dell’Independent e ai loro seguaci nostrani (a quanto già citato il mese scorso si può aggiungere un video della rubrica Salute sul sito del Corriere della Sera, con l’intervista allo psichiatra del Fatebenefratelli di Milano prof. Claudio Mencacci). Ma non è ancora finita. Da più parti infatti si è fatto uso di un recente articolo su Addiction (M. Hickman et al., “Cannabis and schizophrenia”, Vol. 102, pp. 597-606; commenti e risposta ai medesimi pp. 514-518) per affermare che l’uso di cannabis da parte dei giovanissimi potrebbe esser la causa di una parte consistente dei casi di schizofrenia (tra il 10 e il 25%). Il lavoro in realtà è un elegante esercizio di proiezioni statistiche che confrontano gli aumenti negli scorsi decenni del consumo di cannabis e gli andamenti delle frequenze di schizofrenia. Il dato appena citato rappresenta solo un teorico «peggiore scenario», da scontare in base a una serie di elementari considerazioni: le gravi lacune e le frequenti contraddizioni nei dati epidemiologici sulle malattie mentali, che mediamente non mostrano un aumento di frequenza della schizofrenia e tanto meno un cambio dell’età di inizio in accordo con l’accresciuta frequenza di assunzione di cannabis nei giovanissimi; la indisponibilità di dati che consentano di distinguere tra un ruolo patogeno della cannabis e un ruolo della sofferenza mentale nella scelta di assumere cannabis come tentativo di automedicazione; il possibile confondimento tra l’eventuale ruolo patogeno della cannabis e quello di altri fattori (crescente urbanizzazione, crescenti flussi migratori, …); eccetera. Di fronte a un tale quadro inevitabilmente «ipotetico, tentativo e limitato», uno dei commenti, sostanzialmente condiviso nella risposta degli autori, sottolinea con forza il rischio che dati come questi possano essere usati per legittimare giri di vite proibizionisti e criminalizzanti i cui danni sono con certezza già dimostrati. Ma andateglielo a raccontare a Fini & Giovanardi e a quei nostri concittadini che secondo i recenti sondaggi hanno revocato il loro consenso al governo Prodi per la sua pur timida sconfessione delle politiche proibizioniste.