Tempo di lettura: 4 minuti

A settembre la Camera dei deputati ha approvato un emendamento al disegno di legge sul Fondo antidroga che, per i progetti da esso finanziati, esclude la possibilità di utilizzare il metadone al di fuori dei servizi pubblici e, anche per questi, ne limita l’utilizzo, facendo riferimento persino ai dosaggi, alla “finalità clinico-terapeutica di avviare gli utenti a successivi programmi riabilitativi”.

Riprendono forza antichi pregiudizi contro la “droga di stato”. Forse il modo migliore per evitare facili semplificazioni è andare a vedere cosa succede lì dove il metadone viene adoperato, dove si è ormai sedimentata un’esperienza e si possono fare i primi bilanci.

Ci siamo rivolti al dottor Emanuele Bignamini, primario dell’unità operativa tossicodipendenze dell’ASL 3 di Torino, chiedendogli, per cominciare, un’opinione sul dibattito di questi mesi.

Il metadone è oggetto di dispute fortemente connotate ideologicamente, a causa di una concezione della tossicodipendenza non sufficientemente definita. Se la si considera una condizione esclusivamente legata all’assunzione, diciamo pure all’abuso, di sostanze psicotrope e la si ancora al concetto di vizio, la sola cosa che rimane da fare è smettere. Smettere non solo con l’eroina, ma ovviamente con tutte le altre sostanze psicotrope, che alterano la “naturalità” dell’uomo. Questa concezione non può fare una distinzione di significato tra l’assunzione di sostanze illegali e una terapia come quella del metadone. Non riesce a considerare il metadone un farmaco, ma semplicemente la “droga di stato”.

Un’altra concezione considera la tossicodipendenza una patologia, certo complessa, ma che ha delle caratteristiche – definite dall’Organizzazione mondiale della sanità – proprie di una patologia cronica, quindi con una durata nel tempo e caratterizzata dalla recidiva. Allora il nostro problema diventa quello di attrezzarci per una terapia che accompagni il paziente nel tempo, preoccupandosi soprattutto di stabilizzarlo, di evitare che abbia un andamento eccessivamente altalenante. In questo modo è possibile distinguere radicalmente tra l’eroina, che non consente questo tipo di stabilizzazione e il metadone, che si dimostra un farmaco tollerabile, senza grosse controindicazioni e effetti collaterali.

Uno degli argomenti usati contro la somministrazione di metadone è quello del rischio che i servizi per le tossicodipendenze (Ser.T.) si riducano a essere dei distributori della sostanza, dimostrando così di non essere in grado di prendersi realmente cura del consumatore.

Questo è dovuto alla potenza dei mezzi di comunicazione. Confrontando modelli e impostazioni d’intervento diversi potremmo ottenere dati che ribalterebbero questa impostazione. Le cito un dato, ovviamente molto grezzo: i soggetti che abbiamo in trattamento comunitario hanno un drop out, nell’arco dei primi sei mesi, del 50%; quelli che iniziano un trattamento presso il Ser.T. hanno un drop out, a un anno, del 20%. È un dato, non conosciuto, che potrebbe far riflettere, se assumiamo la ritenzione come un indice di efficacia. Chi ha dei pregiudizi nei confronti dei Ser.T. può pensare che li teniamo legati a noi perché abbiamo il metadone. Ma il trattamento metadonico è, a tutti gli effetti, una terapia che ha una sua dignità farmacologica, scientifica e sanitaria, ed è efficace. Noi cerchiamo di offrire un trattamento composto di fasi successive. Nella prima, l’obiettivo è quello della stabilizzazione del soggetto, rispetto all’uso di sostanze legali. In questo modo si prepara il terreno per l’intervento riabilitativo. Su un paziente ben compensato dal punto di vista farmacologico è possibile fare adeguati interventi di reinserimento lavorativo, di ricucitura della rete sociale, familiare e affettiva. La disassuefazione è l’ultimo momento del trattamento. Prima c’è la stabilizzazione, poi il lavoro riabilitativo e, alla fine, quando il soggetto ha una situazione personale sufficientemente consolidata, si può lasciare la sostanza.

La Camera ha votato l’emendamento suddetto. Le intenzioni dei proponenti erano chiaramente quelle di vincolare il finanziamento alla somministrazione di metadone “a scalare”…

Sono sempre tiepido rispetto a dichiarazioni così generiche, fatte al di fuori di un ambito specialistico. Sono consapevole di avere un punto di vista delimitato, quello di medico che fa questo lavoro e mi piacerebbe che anche altri riconoscessero di non possedere la verità. Quando sento parlare, al di fuori degli ambienti specialistici, di riduzione del danno, rimango sempre perplesso. Come molti hanno sostenuto, i medici hanno sempre praticato la riduzione del danno, per qualsiasi patologia. Non è un’invenzione dei politici di questi ultimi anni. Qualsiasi trattamento medico ha delle finalità anche di riabilitazione, certamente si propone di restituire al soggetto in cura delle abilità. Quindi il fatto che esistano dei trattamenti farmacologici, metadonici, che non hanno finalità riabilitative dipende soltanto dal fatto che il metadone è dato da persone poco competenti e con le idee poco chiare su quello che stanno facendo. Diversamente, la terapia farmacologica è sempre di sostegno al progetto riabilitativo.

Certamente siamo all’interno di un dibattito molto viziato da elementi ideologici. Probabilmente dobbiamo anche considerare il peso che ha la proibizione legale sulla possibilità di operare la riduzione del danno e di mettere in primo piano la salute del consumatore. Se andiamo a dare uno sguardo alla relazione annuale della ministra Turco, dove si parla delle tipologie di trattamento dei soggetti che si rivolgono ai Ser.T., si opera una distinzione tra trattamento psico-sociale o riabilitativo e trattamento farmacologico. Come se si trattasse di due tipi di intervento alternativi…

Le due cose sono certamente distinguibili. C’è un approccio di tipo sanitario, che ha sue specifiche caratteristiche e, se vogliamo, anche una sua indipendenza. Stessa cosa si può dire dell’approccio di tipo psico-sociale. Certamente ha poco senso tenerli separati.

Questo si è visto anche quando in Italia si è discusso dell’esperienza svizzera di somministrazione di eroina. Difficilmente si riusciva ad assumere la complessità dell’intervento, che non si limita solo alla somministrazione della sostanza, ma affianca ad essa l’inserimento lavorativo e il diritto all’alloggio.

È uno di quei casi in cui si preferisce non vedere la realtà, per non dover cambiare giudizio. Questo capita non solo ai politici, ma anche ai medici. Ci sono molti medici che danno il metadone malvolentieri, o non lo danno affatto, perché sono essi stessi convinti che non vada bene. Lo danno a scalare e poi, tutte le volte che il paziente ricade, ritengono che il loro lavoro non serva a nulla. Però non provano a usare i protocolli a mantenimento, indicati anche nelle linee guida del ministero della Sanità del 1994. Oggi si parla molto di medicina basata sull’evidenza, ma in questo campo, pur trovandosi di fronte all’evidenza clinica dei fallimenti, i medici non cambiano atteggiamento. Nel nostro servizio un utilizzo più proprio del metadone ci ha portato ad aumentare la ritenzione in trattamento dal 60 ad oltre l’80%, a quasi raddoppiare la nostra utenza nell’arco di tre anni. Di questi utenti, circa l’80% riduce sensibilmente l’eroina o la smette. Non sono piccoli dati. Se un soggetto che si bucava tre volte al giorno, smette di bucarsi o si buca una volta al mese, il trattamento si dimostra efficace. Si può dire che non basta, ma non per questo negarne l’efficacia.