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Nel 2014 il Colorado ha legalizzato la produzione, il consumo e il commercio della marijuana. A maggio ho visitato Denver, una delle due città che ha aderito alla nuova normativa per vedere come funziona l’antiproibizionismo applicato.

La riforma è avvenuta grazie a una proposta popolare di modifica della Costituzione dello stato che ha consentito la totale decriminalizzazione della cannabis e avviato la regolamentazione della coltivazione della pianta e la sua commercializzazione in appositi “dispensari”. Il governatore del Colorado è un democratico, ma in prima battuta s’era schierato contro il referendum. A un anno dalla legalizzazione s’è ricreduto. La normativa adottata consegna al libero mercato un prodotto proibito da oltre mezzo secolo; ciò non vuol dire un laissez-faire, bensì consentire, con mille puntigliose regole, lo svolgimento di una serie di attività e comportamenti in precedenza proibiti. Dei quattro Stati che hanno legalizzato la marijuana per via di referendum popolare, il Colorado è quello che ha optato per il modello più “liberista”, che consente a più soggetti di esser presenti sul mercato purché obbediscano strettamente a un sistema di licenze per la coltivazione.

Le licenze fissano i (pochi) luoghi in cui è possibile commerciare la pianta e i suoi derivati, e definiscono le (limitatissime) possibilità di consumo in pubblico della sostanza. In virtù del proibizionismo federale, rimane ancora irrisolta la questione dell’apertura di conti bancari dove poter depositare i proventi delle vendite. Per tale ragione, i lavoratori sono pagati quotidianamente, ma rimane il rischio per la custodia dei sostanziosi incassi, specie nel fine settimana quando arrivano i turisti da fuori. Nonostante ciò, negli ultimi dodici mesi si sono registrate solo un paio di rapine.

L’introduzione della legalizzazione in Colorado mirava a tener sotto controllo il numero dei consumatori, limitare il mercato nero, calmierare i prezzi, imporre tasse e distribuire gli introiti per progetti socio-sanitari non necessariamente legati al consumo problematico degli stupefacenti. Nei primi dodici mesi, si calcola che attraverso l’imposizione di un 22% di tasse (percentuale scandalosamente alta per gli USA) nelle casse del governo locale siano entrati intorno agli ottanta milioni di dollari. Meno dei 100 previsti, ma sicuramente significativi. Per il momento, non è stato notato un incremento nel consumo.

La Corte suprema potrebbe presto prendere in considerazione le cause intentate degli stati confinanti col Colorado per presunte violazioni del diritto federale che, in virtù della ratifica delle Convenzioni Onu, non consentirebbe la produzione delle piante in tabella (tra cui la cannabis) se non per fini medico-scientifici. Fino a quando Eric Holder era Attorney General, Washington non aveva perorato la causa; ma con l’arrivo di Loretta Lynch, la controversia potrebbe esser presa in considerazione nella complessità della intricata divisione di competenze fra singoli stati e amministrazione federale.

Un recente sondaggio ha registrato che agli abitanti del Colorado il nuovo quadro normativo non dispiace: oltre il 70% degli intervistati ha detto che non tornerebbe indietro. Nel resto degli Usa, le percentuali dei favorevoli alla legalizzazione della marijuana sono saldamente intorno al 55%. Per l’election day del 2016, si prevedono almeno altri dieci referendum per la legalizzazione della marijuana, tra cui la California. E non passa giorno che un’assemblea legislativa statuale non metta in agenda riforme per consentire la prescrizione dei cannabinoidi a uso medico.

(Il dibattito in vista di Ungass 2016 su www.fuoriluogo.it)