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Il fallimento della guerra alla droga porta con sé enormi conseguenze, dal ripensamento della costruzione ideologica del proibizionismo all’archiviazione degli strumenti utilizzati per combattere una battaglia insensata che ha prodotto milioni di vittime nel mondo. Il modello organizzativo dello zar antidroga come struttura autocratica, da combattimento, va dunque cancellato, anche in Italia.

Giovanni Serpelloni, capo indiscusso del Dipartimento antidroga dal 2008, il 15 aprile ha rilasciato un’intervista a Redattore sociale per rivendicare il suo ruolo e per indicare una nuova prospettiva, candidandosi, magari solo per sei mesi, a dirigere il cambiamento. Un’intervista patetica, condotta su un registro alternante, da protagonista arrogante a sconfitto rassegnato. Serpelloni, dopo aver ricevuto la lettera dalla presidenza del Consiglio il 9 aprile con la notifica del rientro alla Asl 20 di Verona, si è messo in ferie e da Roma continua la sua lotta per discutere della riorganizzazione del Dipartimento e chiede, sconsolato, se i suoi uffici  servano ancora oppure no.

Pare che Serpelloni abbia suggerito di mantenere il Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio in alternativa a una possibile collocazione nei ministeri della Salute, degli Interni o del Welfare.

Una impostazione di questo genere è arretrata e fuori contesto. Dopo la sentenza fondamentale della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, occorre davvero considerare finita l’era dell’oltranzismo ideologico e voltare pagina. Da questo punto di vista il decreto Lorenzin in discussione alla Camera rappresenta solo il segno del passato che non si arrende, tra contorsionismi  e  tentazioni di improbabili colpi di coda.

Ripensare dalle fondamenta la politica delle droghe, dopo decenni di indigestione di paccottiglia pseudo scientifica e di rimasticature neolombrosiane sulla potenza incontrollata delle sostanze e l’incapacitazione degli individui, è un compito che richiede intelligenza e rigore.

Il Manifesto di Genova, documento sottoscritto da un ampio cartello di Ong italiane, offre un’analisi politica ampia e indicazioni operative convincenti. Invece di uno zar antidroga, è urgente costituire una “cabina di regia”, un team di persone competenti che sappia individuare linee di intervento  e obiettivi condivisi da un mondo vasto, di servizi pubblici e del  privato sociale, di operatori e di consumatori, di giuristi e di amministratori.

Va quindi smantellata dalle fondamenta la struttura di potere del Dipartimento e va cancellato il Comitato Scientifico amerikano, del tutto subalterno allo statunitense  Nida (National Institute for Drug Abuse), di nome organismo scientifico, ma di fatto un “ministero della propaganda antidroga”, così come è irriverentemente soprannominato negli ambienti scientifici. Va invece ricostituita una Consulta snella ed efficiente per preparare una Conferenza nazionale sulle droghe che riprenda il filo strappato di quella di Genova del 2000.

In quella sede si dovrà sviluppare il confronto con la politica per definire le linee di una nuova legge sulle droghe che disegni un regime di piena depenalizzazione del consumo personale e di spazio per sperimentazioni innovative. Altro grande tema dovrebbe essere la definizione del ruolo dell’Italia e dell’Unione Europea in vista dell’Assemblea generale Onu sulla droga (Ungass) prevista nel 2016. E’ tempo di fare i conti con la nuova frontiera indicata dai paesi del sud America, Uruguay e Bolivia in testa, che hanno scelto di sperimentare una regolamentazione per le sostanze meno rischiose.

Cambiamo verso, ora.