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boldrini.jpgNei giorni dell’ira e della paura anche le parole divengono irose e impaurenti. Ma sono esse stesse a plasmare i giorni dell’ira e della paura, in un circolo continuo che retroagisce confermandosi. Così negli anni recenti ci siamo abituati a un lessico duro: immagine dell’atteggiamento diffuso verso i settori più problematici del sociale e, al contempo, ricostruttore del ruolo di marginalità e irriducibile problematicità a essi assegnato. La locuzione simbolo è stata “tolleranza zero”, utilizzata a rimarcare un atteggiamento di non-comprensione degli eventi difficili da dipanare, i comportamenti difficili da omologare, le contraddizioni difficili da ridurre e sanare e il loro declinarli con il linguaggio della punizione. Si è iniziato con la giustificazione della punizione come bene per sostenere l’approccio penalizzante al tema delle droghe, si è proceduto con quelle del decoro e del fastidio per avviare campagne nelle città contro lavavetri o questuanti, si è progredito con un’idea segregante di cura per tentare di ricondurre in luoghi chiusi quelle diversità che una legge lungimirante di più di trent’anni fa aveva liberato. Infine ci si è accorti che la intolleranza verso ogni diversità ci ha condotto all’essenza di quella locuzione: la punizione della povertà, la privazione della libertà di coloro che rappresentano un problema per un contesto che non vuole essere disturbato. Quei termini, introdotti sulla scia di un desiderio emulativo di politiche d’oltre Atlantico, hanno costruito una cultura che così ha dibattuto sui lavavetri mentre nel mondo si concretizzavano conflitti, bellici ed economici. La sintesi era nelle parole del ministro dell’interno del febbraio 2009: “non bisogna essere buonisti, ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”.
Colpisce allora che una delle prime frasi della Presidente della Camera nel discorso d’insediamento sia stata: “Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i diritti degli ultimi … Questa istituzione sia luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno”. Il cambio del registro lessicale è evidente ed è di buon auspicio, perché proprio dal lessico occorre iniziare per un’operazione d’igiene democratica. In nessuna delle precedenti occasioni c’era stato questo accento: Fini, Casini e anche Bertinotti avevano sottolineato il loro “essere di parte”, pur come premessa per assicurare il rispetto che avrebbero avuto di ogni opinione esprimibile in quell’aula. Ma, il lessico sottinteso voleva che la parola “parte” si riferisse a “parte politica” di appartenenza. Anche Boldrini ha ricordato la parte di sua provenienza, ma la parola aveva un altro significato: non più etimo di “partito”, ma indicazione della rappresentanza di bisogni e diritti: “farsi parte” piuttosto che “essere parte”.
Più che un lessico inusuale, l’uso diverso di un lessico a cui ci si era abituati ad attribuire significati impliciti, senza leggere in essi il prodotto di un’assuefazione negativa.